I cinque insegnamenti di un panino ammuffito
Alcuni anni fa – forse era il 2013 – un allegro signore dello Utah ritrovò nella tasca del suo cappotto un hamburger di McDonald’s, dimenticato lì dal 1999; un po’ come succede a noi con le banconte da 5 euro, o le 1.000 lire per i più anziani. L’hamburger era ancora completamente integro e ben conservato, l’unico odore che emanava era quello del cartone che lo conteneva. David Whipple provò a metterlo all’asta su eBay, ma le offerte non erano mai soddisfacenti, quindi ci ripensò. Poi, a inizio 2020, decise di tirare fuori di nuovo la storia.
Non è un caso se la sua reliquia di hamburger abbia più senso oggi che nel 2013: da qualche anno i due grandi colossi del panino americano stanno cercando di fare a meno dei conservanti, che come suggerisce il termine, conservano. Quindi il panino che si è mantenuto colpevolmente intatto per 20 anni può essere un simbolo, prima ancora che una notizia, e prima ancora che un oggetto di un’asta eBay andata semi deserta.
Burger King, che è un po’ più avanti sull’argomento rispetto a McDonald’s, è stato effettivamente il primo a rinunciare (in parte) a queste sostanze chimiche, e ha voluto comunicarlo in un modo speciale. Un modo “alla Burger King”.
È nato così “The Moldy Whopper”, il panino ammuffito perché non contiene conservanti. In due parole, la campagna dell’anno. L’operazione Pr più interessante che si sia vista nell’anno solar-pubblicitario, che come sappiamo inizia e si conclude a giugno, a Cannes.
La campagna non è propriamente bella – perché un hamburger ammuffito non è mai un bello spettacolo – ma è molto di più: è rivoluzionaria. Una di quelle campagne che segnano un prima e un dopo nel proprio settore, in questo caso quello del food.
Perché puoi vedere un prodotto trattato male, ammaccato, distrutto, sporco, usato, usurato. È già successo in pubblicità. Ma mai si era arrivati a farlo con un brand dell’alimentazione. Cibo. Il proprio prodotto andato a male, avariato, coperto di muffa. Tutto questo per spiegare che quel prodotto non usa conservanti, per cui se lo lasci così prima o poi si ridurrà a muffa.
“The Moldy Whopper” è una campagna che insegna molte cose a noi pubblicitari, tutte piuttosto singolari.
La prima è che nessun tabù è ormai più inviolabile. Puoi ritrarre il tuo prodotto in pessimo stato, perfino se è un prodotto alimentare, se c’è dietro una bella idea e uno scopo (e naturalmente un cliente illuminato, ma su questo torneremo dopo).
E qui lo scopo non è avere click, ma far pensare. La domanda sbagliata che alcuni si sono fatti è stata: “Sì, ma avrò mai voglia di mangiare quel panino?”. Non è questo lo scopo della campagna. Non è a breve termine che lavorerà, ma nel lungo periodo. Oggi potrei avere imparato che Burger King non usa conservanti nei suoi panini, e questo mi sembra molto più importante dell’effetto di disgusto, che dopo pochi minuti avrò già dimenticato. Certo, non stiamo comunque parlando di un cibo sano (le 600 calorie di un Whopper prima o poi verranno a visitarti durante la notte) ma almeno abbiamo tolto coloranti, “flavors” e conservanti. Secondo insegnamento-novità. Ci avevano sempre detto che le grandi campagne si fanno in due: un’agenzia e un cliente. Entrambi illuminati, e se possibile il cliente ancora di più. In questo caso invece la campagna non è stata concepita in due, ma in quattro: un cliente e tre agenzie, che in tempi diversi hanno lavorato alla stessa idea.
I racconti virgolettati del cliente, Fernando Machado, Restaurant Brands International’s global chief (il vero eroe di questa campagna, credo) sono piuttosto chiari, ed è molto interessante il processo seguito: «David Miami presented a version of the campaign idea about three years ago, before Burger King had introduced artificial-free elements in enough markets. INGO Sweden presented a concept a few months ago, when Burger King was further along and felt it could work. We had David and Ingo – they are sister agencies anyway – collaborating and helping each other, with Ingo taking the lead in producing everything. And then, at some point, Publicis – which also works with us in some countries in Europe – shared a version of this idea with us, by coincidence, and offered “a lightbulb” for the language (layouts and headlines) and approach to the premise» (Ad Age).
In sostanza la super-agenzia David Miami ha provato a proporre a BK questa idea tre anni fa, ma il processo produttivo non era ancora pronto. Poi anche Ingo Sweden ha avuto la stessa idea, e a quel punto il cliente, sempre più intrigato, chiede alle due agenzie di collaborare.
Dopo un po’ arriva anche Publicis, con un linguaggio che viene molto amato dallo stesso Machado, che chiede alle tre agenzie di fare fronte comune. È il motivo per cui i credits di questa campagna sono quasi più lunghi dei titoli di coda di Lord of the Rings (che ha il record mondiale con 9 minuti e mezzo): ma del resto idee così rivoluzionarie meritano tutte queste persone dietro.
Terzo insegnamento per un creativo: di solito quando il cliente ti dice “bella idea, la teniamo per l’anno prossimo”, la tua idea è morta. E rosichi perché ti senti pure un po’ preso in giro. Qui sono passati addirittura tre anni, ma ha visto la luce: forse un caso unico al mondo, però ci autorizza a sperare per il futuro.
Quarto insegnamento: pensavamo che una grande idea come questa fosse una cosa rara, quasi irripetibile, perché la “big idea” è unica, arriva a te ma non ad altri. E invece a quanto pare la stessa folgorazione è capitata a 3 agenzie a distanza di tre anni.
Segno che l’insight è sempre la cosa più importante e più bella di tutte? Che il punto di partenza era “ispirante”? O forse è solo segno che come diceva Bill Bernbach “The magic is in the product”: basta osservarlo bene per trovare idee geniali. Quinto insegnamento finale. Ce lo offre direttamente il cliente, e mi sembra il più bello di tutti: (a parlare è Björn Ståhl, super guru creativo di Ingo Sweden) «When Fernando Machado saw it, he said: “against every rule of food advertising. I love it. We have to do it”».
In sostanza Machado ha preso il manuale delle regole del bravo chief-director ecc ecc, lo ha messo in un angolo, e ha fatto una cosa che avrebbero fatto in pochi: lo ha lasciato ammuffire. Solo dopo è ammuffito anche il panino. Ma è più bello pensare che tutto abbia avuto inizio da quell’hamburger del 1999, dimenticato nel cappotto di David Whipple, e che nessuno ha mai mangiato.