Outside the bubble – In Pod we Cast
È la notte di Halloween del 1938. Dalle radio di milioni di americani, la voce di Orson Welles inaugura quello che è, a tutti gli effetti, uno dei primi stunt PR della storia: la leggenda vuole che il broadcast “The War of the worlds”, che simulava un attacco da parte dei marziani agli Stati Uniti, abbia scatenato panico e isteria in migliaia di americani. L’esperimento di Welles dimostrava l’enorme potenziale di un mezzo ancora agli inizi della propria storia ma si fa fatica a ricordare, a distanza di 80 anni, un momento in cui la radio sia stata altrettanto dirompente e “creativa”.
Oggi però questo mezzo sta vivendo, contro ogni aspettativa, una nuova, e altrettanto dirompente, giovinezza: grazie all’avvento dei podcast, la vecchia radio, ormai data per morta e incapace di reinventarsi, ha riabbracciato la creatività e la sperimentazione, e conquistato un nuovo pubblico.
È difficile capire come un semplice cambio di formato, e di modalità di fruizione, sia riuscito a innescare una vera e propria rivoluzione del linguaggio radiofonico, ma è innegabile che negli ultimi anni il mondo dei podcast sia andato ad aggiungersi alla lista di “terre di frontiera” della cultura contemporanea, luoghi dove le regole vengono riscritte e dove la creatività regna sovrana. E i pionieri di questo rinascimento sono proprio quegli Stati Uniti a cui Orson Welles aveva raccontato l’invasione aliena più di 80 anni fa.
Ci sono casi da manuale, come “Serial”, serie investigativa NPR che nel 2014 ha messo in discussione la condanna per omicidio di un 18ennne di Baltmora, riaprendo il caso. In pochi mesi “Serial” ha conquistato milioni di ascoltatori rivitalizzando il genere documentaristico True Crime e trasformando il podcast in un fenomeno di costume. O la più recente “Caliphate”, il podcast del New York Times che ha sollevato un velo inquietante sull’Isis con una profondità che sarebbe stata impensabile per un qualunque articolo di giornale. La storia di “Caliphate” è alla base di un commercial di Droga5 che ha sbancato a Cannes Lions l’anno scorso.
Ci sono poi i podcast più sperimentali, quelli che hanno reinventato il genere e ampliato le potenzialità del mezzo.
Gioielli come “Welcome to the night Vale”, che dal 2012, due volte al mese, trasmette da una fittizia cittadina degli Stati Uniti e commenta gli eventi a cavallo tra la fantascienza e l’horror che coinvolgono la cittadinanza. O il geniale “Everything is alive”, una serie di interviste a oggetti inanimati che ci portano nella loro quotidianità: cosa ha da raccontarci una saponetta? Qual è il punto di vista di un satellite sulla Terra e i suoi abitanti? O “The Truth”, una serie di esperimenti di storytelling, che a ogni puntata regala visioni degne di un episodio di Black Mirror: dalla influencer che si rende conto che tutto quello che scrive su Twitter si avvera al gioco a premi inter-dimensionale il cui montepremi è capire cosa c’è che non va in ognuno di noi. C’è di tutto: musical in stile broadway (“36 questions”), podcast di 3 minuti pensati per tenere compagnia ai bambini mentre si lavano i denti (“Chompers”) o veri e propri esperimenti sociali (“The Habitat”). L’impressione che si ha, iniziando a esplorare gli sterminati cataloghi di Apple Podcast o Spotify, è di trovarsi di fronte a una cornucopia inesauribile di idee, scrittura e qualità.
La lezione per i professionisti della creatività, che siano in forza ad agenzie o brand, è semplice ma potente: non esiste un linguaggio che non possa venire contaminato, ripensato o le cui regole non possano essere completamente riscritte. Cosa succederebbe se provassimo a ripensare la pubblicità come i podcast hanno ripensato la cara vecchia radio?