UPA rivede le stime in positivo: investimenti in recupero, 2020 a -12%
Sassoli de Bianchi: «Si riduce il calo degli investimenti in advertising: chiusura mercato 2020 a -12%. Guardiamo ai prossimi mesi con fiducia»
In un anno “horribilis” come questo, il calo degli investimenti pubblicitari sarà inevitabile, e anche double digit, ma con buone probabilità sarà inferiore alle stime disegnate qualche mese fa.
«Lo scorso giugno, dopo mesi che avevano registrato -25% e -27%, la survey di UPA aveva previsto una chiusura del mercato a -17%. Oggi, con una nuova survey realizzata tra i nostri associati, pur tenendo conto della estrema volatilità della situazione e della scarsissima visibilità sugli investimenti possiamo ipotizzare un dato che si attesta a -12%. È un dato migliorativo che ci fa guardare ai prossimi mesi con una certa fiducia, perché questo risultato sarebbe addirittura migliore a quello del 2013, dove il calo era stato del 13%. Sono convinto che stiamo piano piano uscendo dal periodo drammatico», ha dichiarato il Presidente Lorenzo Sassoli de Bianchi, presente ieri al Campus Bovisa di Milano alla presentazione della prima parte, “Il ruolo della marca e il futuro dell’advertising”, della ricerca “Branding e-volution”, elaborata da Utenti Pubblicità Associati e dalla School of Management del Politecnico di Milano, con la partecipazione di GfK, GroupM, Integral Ad Science, Inmediato Mediaplus, Kantar, LinkedIn, Nextplora, Rai Pubblicità, Sensemakers, Teads, WebAds, e che ha coinvolto sia aziende di marca sia player della comunicazione, mettendo in luce i rispettivi diversi approcci alle attuali dinamiche del mercato.
Partito circa 18 mesi fa per analizzare i fenomeni di cambiamento in atto, il progetto assume ancora più rilevanza oggi, perché «anche a causa della pandemia, si avrà bisogno di attivare un sistema di pensiero che cerchi di fornire linee guida a supporto del sistema delle imprese, che si trovano ad affrontare un momento difficile e a prendere decisioni in un quadro che forse non ha mai avuto una tale complessità», ha introdotto Giuliano Noci, Prorettore del Polimi.
Un quadro contrassegnato da una parte dalle nuove regole dettate dalla pandemia e dall’altra dall’ibridazione e dalla contaminazione tra i vari touchpoint di comunicazione e di fruizione dei contenuti.
Il digitale è una necessità
«In questo anno e mezzo, certi trend si sono accelerati e altri si sono fermati: noi investitori pubblicitari siamo in una fase di “turbolenza” iniziata nel 2008, basti considerare che a fine 2019 la spesa in adv era inferiore del 6% a quella del 2008 – ha spiegato Sassoli -. Dieci anni fa non esistevano le parole influencer, branded content o programmatic buying, inoltre oggi le imprese devono considerare anche gli investimenti su risorse umane e tecnologiche necessarie per affrontare il cambiamento. Questa ricerca è nata sulla necessità di cercare risposte a domande di fondo strategiche, per indicare al mercato le direzioni in cui ci si dovrà muovere in futuro per dare certezze agli investimenti, tracciando prospettive di crescita».
Conditio sine qua non è sicuramente il digitale, così «acquisito e pervasivo che per chi fa marketing e per chi si occupa di investimenti pubblicitari, capirne le dinamiche non rientra nell’ambito delle possibilità ma in quello delle necessità», ha proseguito Sassoli, che ha citato tre esempi di aziende che hanno sfruttato l’ambiente digitale per aiutare la marca ad attrarre attenzione, a stimolare l’interesse e a far scattare l’impulso di acquisto.
«Yoox tramite la rete ha invertito il ciclo di vendita della moda. Moncler ha posizionato i suoi siti sul web come uno specchio dei negozi, dando la sensazione ai clienti di scegliere i modelli che sarebbero andati sul mercato e quindi di condizionare le scelte creative dell’azienda. Tramite la creazione della community, Heineken ha trasformato la birra in un rito collettivo. Il digitale racchiude opportunità ma anche rischi, come la poca trasparenza, ma il futuro è lì».
In questo contesto di trasformazione la marca assume ancora più significato e difenderla è un elemento portante della mission di UPA. «Emerge dalla ricerca che le aziende sono convinte che l’equity di marca sia la base per costruire valore economico futuro, per ridurre la sensibilità al prezzo dei prodotti e dei servizi, per aumentare la percezione qualità prodotto, per rendere le aziende più longeve e profittevoli».
Ancora troppa tattica e poca strategia
Ma quanto si guarda al lungo periodo, invece di privilegiare le performance sul breve? «La percezione è quella di una eccessiva attenzione da parte della comunità manageriale di marketing verso indicatori e prestazioni tattiche come conversion, lead generation e sales activation: una tendenza confermata anche da ricerche internazionali – ha spiegato Noci -. Quando intervistato, il top management dichiara di avere fede nel ruolo della marca e nella volontà di avere obiettivi di lungo periodo, ma in quelle stesse aziende è evidenziata una ossessiva attenzione sul breve periodo: è chiaro che esiste uno scollamento che trova le sue radici probabilmente nell’arrivo delle tecnologie digitali e nella complessità del periodo».
Come se non si puntasse abbastanza sui valori della marca che rappresenta ancora oggi «la leva che permette di agire sulla mente umana, la quale ha bisogno di archetipi che aiutino a semplificare decisioni per minimizzare incertezza o rischio associati a quella decisione».
Secondo Noci, «se fino a qualche anno fa la marca era prevalentemente storytelling, oggi dobbiamo considerarla come un sistema di valori e un’architettura di interazioni, perché una marca è quello che è quello che il consumatore-individuo vive. Quindi una visione troppo a breve periodo è una prospettiva “parziale” che porta alla commoditizzazione: c’è bisogno di un costrutto che aiuti le imprese ad assolvere a obiettivi di lungo periodo, per effettuare transazioni nel medio periodo e sviluppare azioni tattiche di immediata utilità. Il marketing e la comunicazione dovranno lavorare sempre più in chiave integrata con univocità di obiettivi. La pandemia ha poi valorizzato il lato purpose del brand e la sua dimensione fiduciaria».
Per la creatività il “new” è “normal”
Presente alla giornata con uno speech dal titolo “Se non è nuovo non è creativo” anche il Presidente di UNA, Emanuele Nenna.
«In questo particolare momento storico che va alla ricerca del “new normal”, la creatività ha un grande vantaggio perché per il creativo “the new is normal”, questa è la sua missione – ha dichiarato Nenna -. In un contesto che cambia ogni giorno, la capacità creativa è un ingrediente fondamentale per muoversi correttamente e con destrezza: i creativi bravi sono quelli che invece di temere il cambiamento lo maneggiano e possono così “guidare” le aziende. Non si può più disgiungere il momento strategico del media e quello della creatività e più che del futuro bisogna pensare a un “present continuous”, dove i dati da soli non bastano se presi in maniera asettica: vanno letti e interpretati e questo è il lavoro delle agenzie. L’ottimizzazione creativa è determinante per l’incremento di tutti i Kpi ma l’impatto della creatività sul business deve procedere di pari passo con il purpose dei brand, cioè con il valore della responsabilità che può influenzare attraverso i messaggi il cambiamento della società».
I dati della ricerca
Dai dati della ricerca presentati da Nicola Spiller, School of Management del Politecnico di Milano, e da Alberto Vivaldelli, Responsabile Digital di UPA, emerge che a fronte di un 47% dei rispondenti che dichiara che il ruolo del brand purpose è rimasto invariato, il 39% degli intervistati ritiene invece che l’emergenza sanitaria abbia portato le proprie aziende a dare maggiore importanza agli investimenti a supporto di iniziative che testimoniano l’impatto positivo delle marche sulla società. Un trend che, per il 49%, si protrarrà anche al termine dell’emergenza Covid.
La brand equity è unanimemente riconosciuta come un elemento fondamentale per determinare le performance di business, anche se esiste minor consapevolezza riguardo alle strategie e agli strumenti volti a costruire e mantenere un’adeguata equity di marca.
Tra i principali motivi che limitano l’allocazione degli investimenti in attività mirate alla costruzione della marca, secondo il campione vi sono la mancanza di modelli di misurazione efficaci nel quantificare l’impatto della marca sulle performance di business e il forte focus sulle performance di business di breve termine.
Anche per questi motivi negli ultimi tre anni tutti i settori (in particolare, le imprese di Fast Moving Consumer Goods) hanno privilegiato investimenti pubblicitari orientati al breve termine con il 70% del campione che ritiene che nell’ultimo triennio siano cresciuti gli investimenti in sales activation. Un’altra sezione della ricerca ha riguardato il possibile ruolo futuro di editori e piattaforme online.
Dalle risposte è emerso che la capacità di profilazione delle audience è importante sia per la costruzione della marca (64% del campione) sia per la sales activation (74%). Questo tema sarà peraltro oggetto di approfondimenti specifici il prossimo 1° ottobre con la presentazione di “Dati e strumenti di misurazione come asset per la marca”.
Interessante è la percezione che aziende di marca e player della comunicazione hanno delle grandi piattaforme digitali globali (OTT) rispetto all’impatto sulla costruzione e gestione della brand equity.
Gli advertiser le considerano senza dubbio un’opportunità, anche se ritengono penalizzanti i contesti in cui marche forti e nuovi entranti sono posti sullo stesso piano. I player della comunicazione ritengono, dal canto loro, che per le imprese clienti gli OTT rappresentino una minaccia.