Speciale Il Ritorno del Pubblivoro – Pubblicità senza mascherina
Per chi come me è cresciuto con La notte dei pubblivori il Super Bowl è la grande abbuffata. Nella trasmissione televisiva più vista negli States tutto diventa spettacolo, dalla partita all’ospite musicale durante l’intervallo, passando naturalmente per le pubblicità. Gli spot proposti diventano avant-première che, in qualche modo, possono essere visti come un termometro della comunicazione e della creatività americana e, in parte, mondiale.
Analizzando i sessanta commercial mandati in onda durante lo show, la prima considerazione che mi viene da fare è che solo uno affronta il tema della pandemia.
È quello di Ford che con “Finish Strong” inizia la propria narrazione rappresentando il momento attuale per poi arrivare a un ritorno alla normalità. Lo spot è girato molto bene e, soprattutto, non si vede neanche lontanamente il prodotto. La scelta dell’azienda è quella di dare un contributo alla resilienza, alla speranza e alla motivazione, ponendo il tema di attualità davanti alla missione meramente commerciale.
C’è solo un altro spot che richiama la pandemia: l’energy drink Rock Star che rappresenta in una fase dello spot persone con la mascherina. Per tutti gli altri 58 spot la pandemia non esiste. Non è soltanto una questione di pubblicità. Anche le serie Tv non riescono ad affrontare l’argomento. Il trauma collettivo è ancora così forte e presente che non riusciamo a raccontarlo. Nonostante sia ormai un anno che siamo vittime del coronavirus, ammettere che faccia parte del nostro quotidiano ci è ancora impossibile, pertanto cerchiamo di fare un cortocircuito che cancelli questo periodo nelle nostre narrazioni. Insomma, non siamo stati ancora in grado di esorcizzare il trauma per poterci convivere e narrarlo.
Al netto di questa prima considerazione, le scelte fatte si possono ricondurre a due dicotomie. Ancorare la pubblicità a un immaginario collettivo passato con delle citazioni cinematografiche oppure ricorrendo all’ingaggio di testimonial. Scegliere un mood divertente oppure prendere la direzione opposta e andare verso il pathos e l’emozione intensa.
Nell’ambito delle citazioni cinematografiche troviamo Wayne’s World (Uber Eats) con i due protagonisti redivivi ed Edward mani di forbice (Cadillac) con la rediviva Winona Ryder. Il fatto che abbia ripetuto l’aggettivo redivivo può far intuire come io ritenga che questi spot non passeranno alla storia. Non basta più attaccarsi a un immaginario collettivo passato e lavorare sulla nostalgia per riuscire a comunicare in maniera efficace.
La scelta dei testimonial è più intrigante e anche la più gettonata, quasi passasse il messaggio che senza una persona conosciuta e riconoscibile non si possa creare uno spot di livello. In alcuni casi è chiaro come il peso del testimonial sia andato a vanificare la creatività nella narrazione. Un po’ come se bastasse l’ingaggio del nome a creare uno spot avvincente.
Tra gli spot eccellenti che riescono a coniugare storytelling e testimonial il più riuscito è quello di Amazon che promuove Alexa alimentando l’immaginazione sensuale nella protagonista grazie alla personificazione dell’interfaccia da parte di Michael B. Jordan. Lo spot divertente diventa ancora più divertente grazie agli inserimenti del marito geloso che cerca di smorzare la tensione della moglie.
Anche lo spot che promuove le Doritos 3D sale sul podio delle pubblicità con testimonial. Qui, il grandissimo Matthew McConaughey presenta le difficoltà di una quotidianità in due dimensioni. Il prodotto diventa la soluzione grazie proprio alla propria caratteristica tridimensionale anche se (e qui c’è la creatività che fa la differenza) l’epilogo non è felicissimo.
Sul terzo gradino del podio sale Scotts and Miracle-Gro che mette in campo Martha Stewart, Stanley di The Office e soprattutto un John Travolta che gira un TikTok. Qui la linea narrativa non è particolarmente creativa ma vedere Travolta che balla e si prende un po’ in giro con autoironia vale il prezzo del biglietto. Da vedere anche Cheetos con Shaggy e Asthon Kutcher, Tide con Jason Alexander e l’esperienza visiva di Mountain Dew con John Cena.
Sulla scelta Fun o Pathos vince numericamente di gran lunga la prima, probabilmente per il voler regalare un momento di spensieratezza e divertimento nella pandemia che, come abbiamo detto, si fa fatica ad affrontare.
Volendo invece analizzare i settori merceologici vale la pena fermarsi su quello delle birre, dove c’è stato un confronto in famiglia con gli spot di Bud, Michelob, Stella Artois e del gruppo di cui fanno parte che è Anheuser-Busch.
Vince a mani basse Stella Artois con Heartbeat Billionaire, un Lenny Kravitz con una voce strepitosa, un messaggio bello e un’esperienza visiva piacevole. Uno spot fatto veramente bene e godibilissimo. Michelob fa un passo indietro nella comunicazione, non riuscendo ad eguagliare lo spot con la figlia di Lenny, Zoe Kravitz, di due anni fa. Si appoggia sugli sportivi di successo come Serena Williams e Anthony Davis, ma questo non basta.
Bella la pubblicità Anheuser-Busch che riesce a dare un significato forte, valoriale e attuale al modo di dire “Let’s grab a beer”.
Da dimenticare gli spot della Bud, il perché non c’è bisogno che lo scriva, basta guardarli per vedere che non aggiungono nulla a quello che si è già visto, sia come creatività che come realizzazione. Altro settore interessante nella competizione pubblicitaria è quello automobilistico.
Sul terzo gradino del podio lo spot già menzionato di Ford. Al secondo posto lo spot di Jeep, ritirato dopo la notizia dell’arresto del protagonista Bruce Springsteen per guida in stato di ebrezza risalente a novembre 2020. Lo spot è molto bello, americano e valoriale. Ma soprattutto, in maniera indiretta ed elegante, conforta gli statunitensi sul fatto che l’azienda è ancora fortemente americana anche dopo l’ingresso del gruppo francese nell’azionariato. Se si rileggono le parole del Boss da questo punto di vista si coglie l’intelligenza del copywriting. Ricordo anche lo spot del Super Bowl di quando la Fiat era entrata nel gruppo che ribadiva l’americanità del brand con lo slogan “Imported from Detroit”. Fossi stato nei panni della comunicazione della Jeep non avrei sospeso lo spot ammettendo di fatto l’errore. I dettagli dell’arresto sono ancora tutti da comprendere e, inoltre, con l’annuncio del ritiro dello spot hanno rafforzato l’attenzione sull’accaduto rischiando di aggravare ulteriormente il rischio reputazionale.
Medaglia d’oro, non solo per quanto riguarda il settore auto, vincente su tutti i 60 spot del Super Bowl è il commercial Toyota. Una narrazione con una duplice linea temporale degna di Christopher Nolan. L’atleta, nuotando, ripercorre la propria crescita e contestualmente viene rappresentata la telefonata tra l’istituto e i futuri genitori adottivi. In un pathos crescente e con montaggio alternato arriviamo, dopo gli applausi del pubblico alla frase della mamma che, invece di rinunciare ad un’adozione difficile, dice “I can’t wait to meet her”. Lo spot, oltre avere una linea narrativa creativa, è proprio bello da vedere, con una creazione visiva apparentemente surreale che, invece, dona realtà e verità al messaggio. Quest’anno al Super Bowl vince il pathos con una testimonial poco conosciuta. Spesso le strade più difficili sono quelle che costringono a cercare una creatività più spinta e premiano di più.