La Rivoluzione Analogica – Il dramma del singolo contro il dramma collettivo nella narrazione vince dieci a zero
Ho assistito di recente a un documentario sulla reclusione e la deportazione di Anne Frank e ho riflettuto un po’ sulla narrazione del libro che avevo letto da adolescente, quindi chiaramente non ricordavo assolutamente niente. Il documentario (#AnneFrank. Vite parallele) in cui la voce narrante e interprete era Helen Mirren mi ha toccato, profondamente, ma soprattutto mi ha fatto pensare alla narrazione in comunicazione.
Il giornalista che ti racconta del genocidio di sei milioni di persone ti impressiona, ma il dramma del singolo ti tocca molto più profondamente. Il dramma del singolo contro il dramma collettivo vince dieci a zero.
Secondo me in comunicazione i giornalisti dovrebbero farsene una regola e approfondire alcune notizie piuttosto che diventare i megafoni delle agenzie stampa. Questo potrebbe modificare la percezione degli immigrati da semplici numeri da riportare in cronaca a esseri umani, da vittime a persone. Se racconti di un barcone affondato con 76 persone a bordo colpisci, ma non smuovi le interiora e le coscienze.
Se nel tuo racconto approfondisci e mi dici che tra le 76 vittime c’era una madre a cui in Libia hanno strappato di mano la bambina senza far imbarcare la donna mi riporti all’essere umano. Quell’umanità che stiamo perdendo. Vale per tutto, vale anche per le narrazioni dei brand (e Gavino Sanna in Italia è stato un precursore).
Oggi i brand parlano ai target e forse mancano pezzi di “verità”. Vediamo raffigurazioni dei “giovani” e della “gioventù”, mai un giovane vero. Immortaliamo testimonial e prodotti, raramente benefici che incidano nelle esistenze. Rappresentiamo idee di famiglia, raramente una vera famiglia. Casting plastificati, produzioni laccate che arrivano a Cannes tra i fischi del pubblico degli altri Paesi, perché anche dei premi internazionali e le selezioni dei siti specializzati bisognerebbe raccontare il dramma di una qualità dell’advertising nostrano.
La pubblicità affonda tra creativi sempre più giovani, quindi meno costosi, chiamati da agenzie internazionali che lasciano in panchina le eccellenze. Se guardo i giocatori in campo e guardo chi sta seduto in panchina mi chiedo a cosa mirino gli allenatori, forse a perdere di autorevolezza e credibilità.
Credo che ai tanti creativi che in passato hanno fatto man bassa di premi internazionali, tre quarti (se non la totalità) delle idee circolanti creerebbero imbarazzo al solo presentarli in una riunione con il cliente. Beata gioventù, forse in pubblicità vale la regola del “live fast, die young” (Sex Pistols docet).